Abito da quattro anni in un piccolo condominio di sei appartamenti, quelli vecchio stile con le pareti di cartongesso e il giardino condiviso che “è di tutti” ma in pratica viene usato solo da chi ha più faccia tosta. All’inizio, mi sembrava un sogno: tranquillità, un po’ di verde, vicini cordiali (o almeno educatamente distaccati). Poi, al piano di sotto, si è trasferita una coppia di pensionati con la passione per la musica. E lì è finita la pace.
Ora, capiamoci: non è che uno pretende il silenzio tombale, eh. So bene che in un condominio bisogna convivere con i rumori degli altri. Ma qui non si tratta di qualche tv accesa o di un’aspirapolvere alle otto del mattino. No. Qui siamo proprio su un altro livello.
Succede in modo del tutto imprevedibile. Può essere giovedì, domenica pomeriggio, Capodanno o Ferragosto. Ogni tanto, così, senza preavviso, iniziano le serate karaoke. Ma non un karaoke qualsiasi: karaoke neomelodico. E non lo fanno solo tra loro: invitano amici, cugini, zie, nipoti, anche quelli che non sapevano di avere. Gente che arriva già allegra, con le birre sotto il braccio e le sigarette in bocca, e dopo cinque minuti hanno già trasformato il bilocale in una succursale di una sagra a Napoli Est.
Il volume è sempre lo stesso: esagerato. Le finestre spalancate, casse Bluetooth potentissime (quelle che sembrano progettate per uno stadio), e le voci… mamma mia, le voci. Ogni nota è un grido disperato lanciato verso il cielo, ogni stonatura una pugnalata nell’anima. E mentre loro si alternano a cantare “Un angelo vero” o “Nun te pozzo perdere”, in giardino si beve, si ride, si urla. Uno una volta si è messo pure a ballare a torso nudo accanto al mio stendibiancheria.
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