Quando ci siamo trasferiti in questo appartamento, ormai quattro anni fa, il primo contatto con il vicino di pianerottolo è stato un disastro.
Lui — signor Ettore, pensionato, vedovo — ci ha guardati come si guarda una banda di ladri che ha appena parcheggiato nel cortile.
Avevamo due bambini piccoli e lui era l’emblema della pace assoluta: giornale, piante sul balcone, radio a volume bassissimo, silenzi lunghi.
I primi mesi sono stati pieni di “scusa per il rumore”, “scusa per la porta sbattuta”, “scusa se correvano”.
A ogni rumore, lui si affacciava con lo sguardo da giudice.
Mai maleducato, eh, ma quei silenzi lunghi che ti fanno sentire sempre in torto.
Poi, un giorno, è successa una cosa che ha cambiato tutto.
Eravamo in cortile, io e mio figlio, che stava cercando di imparare ad andare in bicicletta.
Dopo l’ennesima caduta, ha iniziato a piangere e io ero lì, in difficoltà, perché non riuscivo a convincerlo a risalire.
Ettore era seduto poco lontano, a leggere.
Pensavo non ci stesse nemmeno ascoltando.
Invece si è avvicinato.
Senza dire nulla, ha preso la bici, ha abbassato la sella, ha controllato le ruote.
Poi si è messo davanti a mio figlio e ha detto solo:
“La prima bici non si dimentica. Anch’io avevo paura. Ma poi ho volato.”
Da quel momento, è nato qualcosa.
Ha iniziato a lasciare una mela sulla porta ogni tanto.
Un giorno ci ha portato i fiori del suo balcone “perché dicono che attirano la fortuna con i bambini”.
Una sera di pioggia ci ha prestato un ombrello senza dire una parola, solo appoggiandolo sulla nostra soglia.
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