Il vialetto d’ingresso è largo esattamente due metri e venti.
Ci passano due persone, una accanto all’altra, se una non ha borse e l’altra non respira.
È comune, lo sappiamo.
E dovrebbe essere libero.
Dovrebbe.
Poi sono arrivati i Faccin.
Famiglia tranquilla, cortesi, “se serve chiedete pure”, ma con una strana passione per l’occupazione progressiva del vialetto.
La prima settimana: una bici del figlio appoggiata al muro.
Ok, capita.
La seconda: due bici.
Una con la ruota bucata, piantata lì come un’opera d’arte urbana.
Poi è arrivato il monopattino.
Poi uno sgabello pieghevole, “perché così ci si può sedere un attimo mentre si rientra”.
A metà mese, il vialetto aveva un’aria da mercatino del sabato mattina.
Una piccola aiuola in vaso, un ombrellone chiuso “perché magari d’estate lo apriamo”, e perfino una ciotola per cani, anche se il cane non è il loro.
La cosa straordinaria è che nessuno chiede il permesso.
Tutto viene posato con calma, con l’atteggiamento di chi sta sistemando casa propria.
Un giorno mia madre si è incastrata col carrello della spesa.
Ha sbattuto il piede contro la rastrelliera improvvisata fatta di tubi metallici e fascette.
Quando gliel’ha detto, la signora Faccin ha sorriso e ha detto:
“Eh lo so… anche noi ogni tanto ci inciampiamo!”
Anche noi.
Come se il problema fosse una proprietà condivisa.
Una volta ho provato a spostare la bici.
L’ho messa un metro più in là.
Il giorno dopo, era tornata dov’era.
E c’era un cartello attaccato con lo scotch:
“Si prega di non toccare. Qui non dà fastidio a nessuno.”
Nessuno.
Frase perfetta per dire “non dà fastidio a me”.
Ora lo spazio libero è ridotto a una striscia.
Quando piove, l’acqua scorre solo lì.
Ogni tanto inciampi in qualcosa di nuovo, tipo una gruccia, o un cuscino per le ginocchia “perché ci piace fare giardinaggio all’ingresso”.
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