Abito a Vicenza da quando sono nata, nello stesso quartiere, nello stesso palazzo di tre piani con le scale in marmo freddo e l’ascensore che si blocca se respiri troppo forte.
Mio marito ci scherza sopra: dice che qui il tempo si è fermato al 1994, solo che ogni tanto arriva una fibra ottica a ricordarci che siamo nel futuro.
Ma la cosa per cui sono più grata sono i miei vicini di pianerottolo: una coppia anziana che chiamiamo tutti “i Cecchin”.
Non so nemmeno se sia il cognome vero o solo un modo vicentino per accorciare tutto, ma ormai anche i postini li chiamano così.
I Cecchin non sono chiassosi, non sono invadenti.
Sono presenti. Che è una cosa diversa.
Quando mi sono rotta una gamba cadendo dalla bici, la signora mi ha lasciato fuori dalla porta un vassoio con tre tazze di brodo e un bigliettino:
“Una è per il corpo, due per l’umore.”
Firmato: solo una faccina sorridente.
Quando ho perso mio padre, sono stati gli unici a non dirmi niente di melenso o invadente.
Hanno solo acceso la luce sul pianerottolo ogni sera per due settimane.
Lo so perché me lo ha detto mio figlio piccolo:
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