A volte ci penso e rido da solo come uno scemo.
C’è stato un tempo in cui io e il mio vicino del secondo piano eravamo nemici giurati.
Non sto esagerando: roba da sceneggiatura di un film italiano anni ‘70, quelli con i portoni verdi e le tende a perline.
Io abitavo all’interno 5, lui al 6. Divisi solo da un pianerottolo e da un muro che, col senno di poi, era troppo sottile per contenere tutta la rabbia reciproca.
Abbiamo litigato per otto anni consecutivi.
Per il rumore delle sedie.
Per le briciole sullo zerbino.
Per la puzza del sugo.
Una volta si è arrabbiato perché secondo lui avevo spostato di 20 centimetri il suo motorino Honda. (Giuro che manco avevo la patente.)
Ma il capolavoro fu la guerra delle piante.
Lui le metteva in balcone, io secondo lui le innaffiavo con troppo entusiasmo, e l’acqua cadeva sulle sue gerbere.
Una volta si è presentato con una foglia in mano come prova del crimine.
“Guarda qua! Bruciata!”
Era gialla, era autunno, ma secondo lui era colpa mia.
Abbiamo fatto scrivere lettere all’amministratore.
Abbiamo fatto riunioni condominiali dove nessuno capiva perché ci fosse tanto astio.
Una volta, giuro, abbiamo passato sei mesi senza salutarci… ma lasciandoci bigliettini passivo-aggressivi nella cassetta della posta.
Poi è arrivata la vita.
Io mi sono sposato, lui pure.
Poi ci siamo lasciati entrambi, con qualche anno di differenza.
Poi abbiamo venduto casa, e ognuno ha preso la sua strada.
Stop. Silenzio. Fine del capitolo.
Fino a tre settimane fa, quando entro in un bar all’angolo e vedo quella faccia lì.
Non era cambiata granché, solo qualche capello in meno e occhiali un po’ più spessi.
Mi guarda. Lo guardo.
Ci fissiamo cinque secondi.
E partiamo a ridere. Così.
A ridere come due che si sono rincorsi con la ramazza sul pianerottolo e adesso si sentono due vecchi coglioni.
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